Più niente…
settembre 10, 2014 3 commenti
L’avevamo sognata, agognata, rimirata da ogni versante. Dieci anni fa, quando abbiamo incominciato ad andare per monti assieme, la scorgemmo dalla nostra prima Dolomite comune – la Tofana di Rozes. Avevo ancora una macchina fotografica a pellicola e non la immortalai per risparmiare gli scatti, per dire il tempo passato…
In dieci anni di alpin-masochismo imparammo a riconoscerla attraverso gli scorci più disparati, scoprendone la poliedricità: la frastagliata muraglia della strapiombante parete sud, il titanico massiccio appoggiato dal lato est del Piz Serauta, l’inconsueto profilo “tricornesco” della visuale da ponente e, poi, l’inconfondibile mantello bianco del suo ghiacciaio settentrionale che, ancorchè agonizzante, balugina anche quando il cielo é grigio, a miglia e miglia di distanza. Quattro anime, le più diverse, che convivono nella stessa montagna. La Marmolada.
Per questo progettavamo un bellicoso periplo che permettesse di contemplare tutte le facce dell’alpe, non ci accontentavamo di salirla e basta. L’idea nacque nel 2007, l’anno stesso in cui ci demmo un nome, Le Cavre. Allora rinunciammo per stanchezza: avevamo appena fatto l’Antelao, il Re delle Dolomiti, pensare di fare la Regina subito dopo fu un azzardo… dovevamo fare prima il resto della scacchiera.
Ogni anno abbiamo rinnovato il proposito, ogni anno abbiamo rimandato sfogandoci su altre vette dalle quali immancabilmente ci ritrovavamo a contemplarla. Non era facile mettere d’accordo meteo, impegni di cinque persone – Diego, Lorenzo, Massimo, Sandra, Veronika – e fedeltà al progetto, che pure andò modificandosi includendo il ghiacciaio, dopo che lo scrivente frequentò un corso CAI di alpinismo e scoprì che “si può fare!”.
Poi prima Sandra e dopo Veronika diedero alla luce due frugolett*, quando quest’anno Massimo ha saputo di essere il prossimo in lista si sono rotti gli indugi: quest’anno sulla Marmolada in un modo o nell’altro si va, almeno noi tre maschietti superstiti del gruppo originario, gli unici al momento ancora senza prole.
Oddìo non è che se uno ha un figlio non può più fare dell’alpin-masochismo come si deve, ma se già da scapoli non riuscivamo a metterci d’accordo figuriamoci con pargoli appresso…
Via il “periplo”, via la ferrata Spalla Ovest, si sale dal Fedaia dritti a punta Penìa, la vetta massima, lungo il ghiacciaio, si ritorna giù per lo stesso percorso. Abbiamo scelto la peggior estate degli ultimi 10 anni, come minimo, la prima in 40 anni in cui il ghiacciaio non abbia registrato arretramenti (non l’abbiamo fatto apposta, ma casualmente è pure l’anno del 150° dalla prima ascensione di Grohmann). Il cavo della ferrata occidentale è ricoperto di ghiaccio e neve e noi non siamo gente da ghiaccio, siamo anzi neofiti assoluti in proposito, non abbiamo voglia di iniziare partendo direttamente dalla piolet-traction.
Abbiamo una finestra di solo due giorni di bel tempo, poco male, decidiamo – su suggerimento di Diego – di impegnare il primo sulla ferrata delle trincee, un pezzo del nostro progetto oiginario che corre sulla dorsale del gruppo Mesola-Padòn, dirimpettaia diretta della Marmolada. Scelta tattica: riscaldiamo gambe e braccia e studiamo il percorso dell’indomani, ma anche scienza del desiderio: vedremo per tutto il giorno, costantentemente, la nostra candida (quest’anno più che mai) e a lungo negata montagna. Ci faremo venire le bave.
L’alpin-masochismo, per chi non lo conoscesse, è un alpinismo (scrambling?) fieramente cialtrone, che non risparmia fatica ma neanche ore di sonno. C’è una nostra consuetudine non detta che viola ogni regola di buon senso montanaro: sveglia tardi, tardissimo per i canoni persino escursionistici. Ma incredibilmente per la Marmolada riusciamo a fare un’eccezione e siamo fuori dalla tenda all’alba. Siamo attrezzati di tutto punto, ramponi, picca e corda. La notte prima di partire l’ho trascorsa insonne a ripassare nodi a palla, conserva corta etc. Ok è un ghiacciaio facile, ma non siamo tipi da derogare in sicurezza, solo sulle lancette dell’orologio… talvolta… Ebbene, da bravi previdenti, dopo esser giunti subito sopra Pian dei Fiacconi indossiamo l’attrezzatura. Sappiamo che il ghiaccio è ancora lontano e solo quest’anno il mare bianco scende fino al rifugio ma siamo anche smaniosi di provare i nuovi giocattoli.
Il ghiaccio non lo vedremo mai… fin da sotto il rifugio pian dei Fiacconi fino a punta Penìa sarà tutto un soffice tappeto bianco a ricoprire crepacci e ghiaccio vivo, trasformando il tutto – quasi – in una tranquilla passeggiata. All’altezza del tratto attrezzato ci raggiungono altri viandanti, sciolti e sbarazzini, senza corda e alcuni persino senza ramponi. Mandiamo al diavolo conserva e e ramponi pure noi. Solo per lo schenàl del mul li risfodereremo, per sicurezza, ché quel pendio che sparisce giù senza dare all’occhio la nozione di dove va a finire ci fa un po’ di solletico alle ginocchia..
Quando l’altimetro segna 3264 lo urlo a Diego e Massimo, è l’altitudine dell’Antelao, massima quota raggiunta dal nostro sodalizio proprio nel 2007, quando iniziammo l’interminabile proroga alla Marmolada che ci apprestiamo ad interrompere. Ma quando inizio a vedere la croce di vetta una inconfessabile delusione si fa strada dentro: è tutto troppo facile, sì lo sapevo che non era la nord dell’Eiger, ma non pensavo comunque così banale, sarà la neve che ricopre tutto, sarà il percorso dimezzato rispetto al progetto iniziale, ma…
Arriviamo in vetta, soffia un vento della madonna, scattiamo due foto sfregandoci le mani che ghiacciano… e siamo in luglio! Si accenna a una celebrazione di sorta ma la cosa muore lì, abbiamo solo un gran voglia di metterci al riparo… Ci domandiamo come faccia a resistere la capanna in lamiera poco distante, domanda giusta visto che il gestore ci dirà di lì a poco che è priva di fondamenta… nonostante ciò ci accomodiamo al suo interno, sorseggiando del caffellate preparato con ingredienti che il ragazzo, che – letteralmente – tiene su la baracca, si è portato personalmente in spalla quella stessa mattina (lo avevamo incrociato al pian dei Fiacconi). Il rifugio era chiuso per il maltempo fino a ieri. “Restare qui dentro con le paratie che sbattono giorno e notte, per una settimana, sapendo che una raffica eccezionale potrebbe buttarti giù dalla parete sud, rischia seriamente di mandarti al manicomio” Non stentiamo a credergli…
Usciamo dal rifugio guardando dritti a Sud, verso le Pale di San Martino e oltre. Da qui fino al Sahara non c’è nulla di altrettanto alto, buttiamo l’occhio a est e anche lì fino al Caucaso non ci sono rivali. Siamo sulla vetta di quelle che nella vecchia tripartizione erano le Alpi Orientali. Siamo su Punta Penìa da Pe nìa, più niente oltre questa croce… il non plus ultra… Eppure basta guardare a Nord, da dove siamo venuti: nella foschia che si addensa sulla linea dell’orizzonte intravediamo il biancore delle non lontanissime Vedrette di Ries, già lì ci sono monti più alti, per non parlare dell’ovest dove, dietro al Sassolungo dovrebbero esserci Adamello e Presanella… e l’Ortles poi!
Ma questa è la cima più alta della nostra area, il nostro “parco giochi” quello che fin da quando eravamo giovincelli riuscivamo a raggiungere in non più di 3, massimo 4, ore di macchina partendo dalla nostra Trieste.
E adesso cosa facciamo, cosa faremo?
Pe nìa…
Una volta che sali in vetta puoi solo scendere, semplice verità. Questo era il nostro gioco, lo abbiamo fatto alle nostre condizioni, sulle Dolomiti e al massimo per vie normali, niente di eccezionale e ora siamo al termine di quel gioco?
Non so, che sia rigetto all’ossessione per la vetta? Fenomeno che registra una curiosa convergenza: è un uzzolo estraneo a due categorie di frequentatori della montagna a dir poco antitetiche: i turisti – quelli che preferiscono in rifugi alle cime – e i “professionisti”, chiamiamoli così – quelli che hanno occhi solo per le pareti. Sicuramente noi non apparteniamo né all’una né all’altra categoria. Il nostro alpinismo è fermo a 150 anni fa, proprio all’epoca di Grohmann, dove la vetta era tutto e, come diceva Detassis, l’alpinismo consisteva unicamente nell’arrivare in cima nel modo più semplice possibile. La vetta sarà anche un pretesto per respirare montagna, mangiare roccia (roccette..) e staccare da tutto il resto, ma quando la vetta prefissata non viene raggiunta c’è quell’amarezza che ci ricorda a che categoria apparteniamo… quella degli alpinisti ottocenteschi, nientemeno…
No, è qualcos’altro, ci ho messo un mese per capirlo, salendo sul Triglav, massima vetta slovena, nel WE di Ferragosto! Perchè ho fatto qualcosa di così folle? E’ una storia mooolto lunga, circa una quarantina di pagine, ciò che interessa qui è cosa ho capito su quel monte: ho visto cose che voi alpinisti non vorreste mai credere, padri che portavano in cima figlioletti legati con manicotti di idranti o corde da tapparella, turisti in cappello di paglia e scarpe da tennis che arrancavano sulla cresta terminale del monte ricoperta di verglas, set da ferrata composti da moschettoni da portachiavi legati direttamente alla cintura delle braghe… una fauna che di montagna non masticava non dico l’ABC ma nemmeno le lallazioni elementari, riunita lì solo perchè il Triglav è il monte nazionale e ogni sloveno per essere tale deve andarci in pellegrinaggio almeno una volta nella vita, sdoganando l’ossessione della vetta – patologia di cui sono geloso – anche presso chi se ne starebbe volentieri a valle… mi ribellai a questo uso nazionale di una montagna, peraltro così bella, ma nel momento stesso in cui mi ribellavo ho capito: noi avevamo fatto lo stesso con la Marmolada, era diventato il nostro monte identitario, da qui quello strano senso di vuoto provato su punta Penìa.
Più niente monti? No, più niente monti trasformati in simboli. Se vuoi un monte sacro, fai come i tibetani con il monte Kailash, ammiralo, veneralo, ma lascialo libero dalle tue impronte…